sabato 27 dicembre 2014

Beauty and the Beast - il musical Disney in Italia

Beauty and the Beast, scoprire Broadway a Milano


di Felice Carlo Ferrara



Quando nel 1991 uscì sul grande schermo il film “Beauty and the Beast”, la critica non acclamò soltanto la bellezza e l’originalità dell’adattamento, ma si dimostrò entusiasta anche dei diversi numeri musicali che rievocavano le più ambiziose produzioni di Broadway. Proprio questi apprezzamenti spinsero la Disney ad aprire a New York una nuova divisione interamente dedicata alla creazione di spettacoli teatrali, capeggiata da Thomas Schumacher, prima di allora responsabile dello studio d’animazione, e ad investire subito un notevole capitale. Cominciò così l’avventura produttiva che avrebbe portato al debutto, nel 1994, della versione musical del celebre film, uno spettacolo che ancora oggi sorprende per l’entità del successo riportato. Si parla infatti di oltre 35 milioni di spettatori, di riallestimenti in 8 lingue diverse e di circa 28000 repliche. Quanto ai profitti, stupisce sapere dallo stesso Schumacher che il musical sarebbe risultato più redditizio del film stesso.



Quest’anno ricorrono i 20 anni dal debutto. Per celebrarlo, la Disney Theatrical Productions ha organizzato la prima tournée internazionale dello spettacolo originale (ridotto in realtà di qualche numero musicale di secondo piano e con una scenografia in alcuni momenti meno imponente), tournée che ha avuto la prima tappa italiana a Trieste, presso il teatro Rossetti, e si è poi spostata all’Arcimboldi di Milano, dove rimarrà fino al 3 gennaio. E se la sala sarà invasa soprattutto dal pubblico delle famiglie e dai numerosi fan del film e delle musiche di Alan Menken, in realtà l’occasione è ghiotta anche per chi voglia conoscere e valutare da vicino la qualità e la professionalità di una produzione di Broadway.



 Lo spettacolo si dimostra subito molto fedele al film originale e certo questa è la prima ragione del grande successo della produzione. Si comincia così con una voce narrante che racconta di come una fata punì l’arroganza di un principe, tramutandolo in una bestia con un incantesimo destinato a durare finché non avrebbe imparato ad amare e a farsi amare a sua volta. Paradossalmente, però, il principe, convinto che proprio quell’aspetto terribile renda impossibile ogni relazione umana, vive il sortilegio come una condanna all’emarginazione, anziché un invito ad aprirsi agli altri. L’azione si sposta, tuttavia, in un piccolo paese di provincia e qui vediamo come Belle, una ragazza al contrario molto attraente, fatichi comunque ad integrarsi, non riuscendo a conciliare la sua mentalità moderna con gli orizzonti ridotti dei propri compaesani. Non solo: l’aitante Gaston, pur dotato di una invidiabile fisicità, deve subire un netto rifiuto dalla stessa Belle, e constatare, suo malgrado, che il suo aspetto esteriore non può dargli tutto quello che desidera.
La solitudine dei protagonisti non può quindi risolversi attraverso la loro corporeità. Al contrario è necessario che affrontino un processo di revisione interiore e che imparino ad avvicinarsi l’un l’altra, riscoprendo il valore della gentilezza, della buona educazione, della compassione e dell’empatia verso l’altro.

  
 Il musical conserva quindi con estrema fedeltà tutti i contenuti sviluppati nella versione animata e sceglie anzi di approfondirli e rafforzarli con l’aggiunta di qualche nuovo numero musicale e alcuni brevi dialoghi che si dimostrano scritti con intelligenza e sensibilità. Di fatto il pregio maggiore di questa produzione, pur estremamente generosa in termini di scenografie, costumi ed effetti scenici, è il testo, curato da Linda Woolverton, già autrice della sceneggiatura originale. Se nel film il momento più commovente arriva sul finale, quando Belle confessa il suo amore ad una bestia ormai morente, nel musical si accumulano scene toccanti per tutta la durata del soggiorno di Belle nel palazzo. Si condivide l’inquietudine di Lumiere e di Cogsworth (Tockins) quando constatano che i loro corpi si irrigidiscono giorno dopo giorno e cominciano così a temere che presto l’incantesimo toglierà loro anche ogni coscienza; si assapora l’amarezza di Belle, quando, trovandosi prigioniera e divisa per sempre da suo padre, si pente di aver disprezzato la sua vita di provincia che, pur con tutti i suoi limiti, non le toglieva comunque la libertà; si prova tenerezza per la Bestia, quando scopre con ingenuo entusiasmo che la lettura di un libro può finalmente distrarlo dal pensiero del suo aspetto fisico.


 Il tutto è peraltro accompagnato dalle musiche sempre splendide di Alan Menken e sostenuto da un cast di attori, cantanti e ballerini validissimi, che non tradiscono le aspettative sulla grande professionalità del teatro di Broadway.




 Tra tutti, meritano di essere menzionati in particolare Hilary Maiberger nel ruolo di Belle, molto convincente anche nei momenti più drammatici, e gli esilaranti James May nei panni di Cogsworth (Tockins) e Jacqueline Grabois in quelli di Wardrobe (l’armadio). Non del tutto condivisibile, invece, la scelta della regia di dare all’interpretazione della Bestia un taglio più leggero e più caricato rispetto al personaggio più cupo e complesso ritratto dal film animato. Allo stesso modo la scenografia e i costumi, ricchi e fastosi, sembrano pensati per assecondare un gusto per un intrattenimento leggero, azzeccato magari per certi numeri come Be our Guest, e meno invece per valutare i tanti risvolti drammatici della vicenda.
Ad ogni modo uno spettacolo consigliatissimo per tutti.

 


Beauty and the Beast 
Produzione: Disney Theatrical Productions, NETworks e Broadway Entertainment Group
 Musiche originali: Alan Menken
Testi: Howard Ashman e Tim Rice
Libretto: Linda Woolverton
Regia: Rob Roth
Coreografie: Matt West
Costumi: Ann Hould-Ward
Luci: Natasha Katz
Scenografie: Stanley A. Meyer,
Suono di John Petrafesa Jr.
Supervisione musicale: Michael Kosarin

http://www.disneysbeautyandthebeast.it

Visto al Teatro degli Arcimboldi di Milano

venerdì 26 dicembre 2014

Giocagiocattolo, il Buratto esplora la fantasia dei bambini



Giocagiocattolo: quando l'immaginazione anima la scena


di Felice Carlo Ferrara

Scende la notte e con il buio si risvegliano le paure peggiori di un bambino; nello stesso tempo, però, la realtà sfuma i suoi contorni così definiti durante il giorno e si lascia contaminare dai sogni. Tra le ombre si animano allora anche le fantasie più belle e, proprio grazie a queste, oggetti silenziosi possono prendere vita e dimostrare un cuore tenero.
Tutto comincia da semplici forme geometriche: un triangolo, un quadrato, una sfera, tre figure essenziali che sotto il potere creativo dell’immaginazione generano un intero universo.
Questo il punto di partenza di Giocagiocattolo, una produzione del Buratto che sceglie come protagonisti un orsacchiotto di pezza con la passione per l’aviazione, una bambola che preferirebbe le cure di una bambina più che i dispetti di un maschietto, un buffo pagliaccio a molle e, infine, l’amico immaginario, un rassicurante compagno di vita prestato dalla fantasia e, nello stesso tempo, proiezione onirica del bambino stesso.
Il soggetto, a un primo sguardo, può non sembrare molto originale; tuttavia il suo sviluppo secondo il tema della fantasia creatrice che anima e riempie man mano uno spazio inizialmente vuoto e buio, rende lo spettacolo particolarmente intrigante e, in diversi momenti, davvero sorprendente per lo spettatore. A ciò si aggiunge una grande attenzione per i contenuti pedagogici che affrontano con delicatezza il tema della paura: una paura prima attribuita al buio e poi ricondotta, passo a passo, alla sua vera origine: la paura di essere abbandonati. Timore risvegliato nel bambino dalla nascita ormai prossima di una sorellina e, in parallelo, acceso nei vecchi giocattoli dall’arrivo di un nuovo pacco regalo che conterrà forse qualcosa di più bello, qualcosa che saprà attrarre tutta l’attenzione e l’affetto del bambino escludendo forse i vecchi compagni di gioco.
Ed è un timore che coinvolge con amarezza anche gli spettatori più grandi, perché lo spettacolo può divenire facilmente una metafora di come il tempo spazza via intere epoche. L’ingresso del giocattolo elettronico segna la fine di un mondo oggi già molto lontano, in cui il divertimento era piuttosto creatività, un uso più attivo dell’immaginazione impresso su cose semplici che sapevano, tuttavia, convogliare i sentimenti più belli. E dunque il senso di solidarietà che lega i giocattoli tra loro e li ripara in parte dalle loro paure e dallo sconforto, risulta infine molto toccante.



Giocagiocattolo è dunque uno spettacolo delizioso ed emozionante, scritto con ironia e intelligenza, capace di incantare il pubblico dei bambini e, cosa rara, di dosare ed equilibrare tra loro leggerezza e impegno nei contenuti. A ciò si aggiunge l’ottima capacità attorale di tutto il cast e il fascino delle marionette, realizzate con spiccato senso artistico.

GIOCAGIOCATTOLO
produzione: Teatro del Buratto
progetto Franco Spadavecchia
testo Beatrice Masini
regia Jolanda Cappi e Giusy Colucci
in scena Marialuisa Casatta, Serena Crocco, Elena Giussani, Nadia Milani
scene e oggetti Marco Muzzolon, realizzati dal Laboratorio del Teatro del Buratto da Marco Muzzolon, Raffaella Montaldo, Mirella Salvischiani
voce recitante Gabriele Calindri
disegno luci Marco Zennaro
musiche a cura di Mauro Casappa
direttore di produzione Franco Spadavecchia

inserito nell'IF festival edizione 2014/2015

domenica 7 dicembre 2014

Come Erika e Omar



Come Erika e Omar - è tutto uno show

di Felice Carlo Ferrara



Il titolo è piuttosto esplicito e sintetizza in sé buona parte della trama. Lo spettacolo, un musical sviluppato in due atti, si ispira infatti al delitto di Novi Ligure apportando solo qualche variazione per spingere la vicenda su toni più aspri.
Nella prima parte si introduce lo spettatore in una immaginaria cittadina di provincia, denominata antifrasticamente Santa Serena. Qui si concentrano tipi umani variamente deprecabili: donne fedifraghe, politici corrotti e preti venali. In questa avvilente realtà vive la famiglia tutt'altro che esemplare in cui si consumerà la strage, una famiglia composta da un imprenditore disonesto, una moglie emotivamente instabile, un ragazzino dai marcati tratti autistici e l'adolescente Jessica, che a conti fatti risulta la figura più consapevole e matura del gruppo. Proprio lei veste i panni della protagonista che, desiderosa di liberarsi della mediocrità e della soffocante meschinità delle persone che la attorniano e del peso dato dalla presenza di un fratellino problematico, vede infine nell'omicidio una soluzione al suo malessere e un modo per affermare il suo grido vitale nella periferia più mortifera. Lo slancio decisivo per passare all'azione le è dato dalla complicità a dire il vero poco convinta del fidanzato Christian, con il quale desidera vivere un'appasionata storia d'amore svincolata dai pregiudizi classisti dei genitori.
Ecco quindi che in una notte avviene il triplice delitto.
Jessica deve poi affrontare l'interrogatorio della polizia, ma, per sviare i sospetti, può facilmente cavalcare l'onda di xenofobia che attraversa il paese. Il suo percorso verso la libertà si inceppa però quando interviene un testimone oculare e quando la debolezza caratteriale unita a un mordente senso di colpa spinge Christian a confessare.



Il secondo tempo racconta invece la reazione spregiudicata dei giornalisti alla vicenda, che, lungi da una valutazione umana del delitto, si concentrano esclusivamente sulle potenzialità date dal delitto in termini di oppurtinità di carriera e di guadagno economico. Lo stesso vale per i compaesani che si consolano in fretta della tragedia, sviluppando una sorta di brand per lo sfruttamento commerciale della vicenda. Si avvia quindi una grande macchina mediatica che inizialmente sembra ridare a Jessica un nuovo slancio alle sue speranze, portandola sulle vette vertiginose della fama e del guadagno facile, e che infine rivela anche a lei il suo lato mostruoso: quel freddo cinismo che mercifica le persone e con la stessa rapidità le dimentica. Ecco dunque che in questa prospettiva il verdetto si mostra rovesciato, cosicché nello spettacolo il vero carnefice appare l'intera società che giudica il delitto e poi lo cavalca per i suoi fini opportunisti, piuttosto che la persona che lo consuma per difendere i propri desideri. Ma se questa realtà oscura può apparire allo spettatore troppo meschina e deprimente, interviene il cielo stesso e i suoi angeli per cercare di convincere che il nostro inferno è comunque più allettante del paradiso, dove la bontà dei santi non si sposerebbe troppo con la goliardia o il sex appeal.



Lo spettacolo si avvale di un gruppo attorale validissimo sia sul fronte del canto che su quello recitativo. Spicca in particolare, nei panni di Jessica, Gea Andreotti, che, oltre alle evidenti doti canore, si dimostra capace di alternare sul palco grandi spinte aggressive e improvvisi lampi di malinconia. Tutti gli interpreti, ad ogni modo, si spendono con energia e dedizione. Apprezzabili anche le scelte scenografiche, tutte giocate su una dosata essenzialità, e la regia firmata da Enzo Iacchetti, evidentemente molto abile nel dirigere gli attori. Molto piacevoli, efficaci e sempre orecchiabili, infine, le musiche composte dal maestro Francesco Lori.
Proprio il livello professionale molto alto di tutto il cast, tuttavia, avrebbe potuto spingere la produzione verso pretese più alte. I dialoghi si risolvono invece in battute e situazioni dal taglio demenziale, ristagnando in scene stereotipate e indirizzando così lo spettacolo a un pubblico più dozzinale che medio.
Infine chi temesse che questo spettacolo possa offendere qualcuno per il soggetto trattato, potrà consolarsi nel sapere che ogni scena accumula indelicatezze tali da rendere trascurabile la scelta di spettacolarizzare l'omicidio.

 COME ERIKA E OMAR - È TUTTO UNO SHOW 
Con: Massimiliano Pironti, Gea Andreotti, Paola Lavini, Manuele Colamedici, Gustavo La Volpe, Paola Giacometti, Matilde Facheris, Michele Savoia, Giada Lorusso, Marco Massari, Fabrizio Coniglio, Chiara Anicito.
Regia: Enzo Iacchetti | Musiche: Francesco Lori | Liriche: Tobia Rossi | Regia Tecnica: Alessandro Tresa | Coreografie: Alessandra Costa | Costumi: Mary Mataloni | Disegno Luci: Alessandro Molinari | Suono: Alessandro Turella | Scenografie: Gaspare De Pascali | Direzione Musicale: Francesco Lori | Arrangiamenti: Danilo Ballo | Edizioni Musicali Immaginazione | Assistente Regia: Chiara De Pisa | Comunicazione: Luca Bensaia | Management: Mauro Iacchetti | Ideazione Grafica: Maestro Marco Lodola



La mia massa muscolare magra



La mia massa muscolare magra: 
l'uomo ormai privo di orizzonti metafisici

di Felice Carlo Ferrara



I padri della nostra cultura, da Dante a Manzoni, hanno sempre costruito i loro insegnamenti etici e morali su una solida fede cristiana e su una forte adesione alla filosofia antica e moderna. In un'epoca in cui l'artista è spesso ateo e piuttosto restio alla filosofia, diviene molto arduo per lui non solo darsi un codice etico, ma anche raggiungere una dimensione esistenziale che sappia andare al di là dei meri bisogni fisici e del semplice sfogo sessuale. È quanto ci hanno raccontato grandi figure come Moravia, Fellini o Antonioni con ritratti di uomini che, superati i limiti di una morale assunta passivamente dal cattolicesimo, non sapevano poi che dissiparsi in esistenze vuote e distruttive, annullando le proprie potenzialità intellettuali per dedicarsi ad incontri sessuali svuotati di ogni affettività. I quadri da loro composti non erano tuttavia del tutto desolanti, perché dimostravano ancora una capacità di autoanalisi profonda e carica di dignità.
Lo sconforto sarebbe invece più grave se si dovesse constatare nell'artista un venir meno anche di una visione profonda della realtà, tanto da rendere l'ampiezza della sua riflessione più ridotta di quella della persona comune. La sua funzione sarebbe infatti inutile.


Daniele Pitari in La mia massa muscolare magra

Tobia Rossi, tra gli autori scelti per la rassegna Trame d'autore tenutasi al Piccolo di Milano e dedicata alle nuove voci della drammaturgia contemporanea, con lo spettacolo La mia massa muscolare magra riprende il discorso sulla condizione dell'uomo privo ormai dei condizionamenti morali di un tempo e incapace tuttavia di trovare un equilibrio e di dare un senso alto alla propria esistenza.



Al centro del dramma un attore la cui vita si riduce ad una ricerca inesausta di incontri sessuali consumati in fretta e spogliati di ogni affettività. Complice il mondo virtuale di internet, che, grazie ai suoi orizzonti infiniti, può moltiplicare all'inverosimile le occasioni di discesa nell'abisso della ninfomania. La rete può infatti divenire un vero e proprio oceano, sconfinato e affascinante, ma infine anche estremamente ripetitivo ed alienante. Così il protagonista, affondando in continuazione lo sguardo nelle onde della virtualità, trova sì le chiavi di accesso per aprire tante e tante porte che nella realtà rimarrebbero sbarrate, ma, superato ogni uscio, anziché trovare una soluzione alla sua cronica insicurezza, subisce invece un appiattimento della propria identità e un progressivo svuotamento umano. Perché il cuore è un muscolo che richiede esercizio, e più viene abbandonato, più si restringe.
Superare ogni senso di colpa verso la sessualità non è quindi una gran conquista, se nel contempo si smarrisce una dimensione spirituale o intellettuale e si fatica a raggiungere un equilibrio interiore.
Ma cosa si nasconde infine dietro l'affanno del protagonista? Il desiderio di correggere, respingere e cancellare un'immagine di sé maturata nell'infanzia che non poteva rispondere ai canoni di apprezzamento di una società superficiale.


Come altri lavori di Tobia Rossi, anche questo spettacolo è stato portato in scena da Manuel Renga di Chronos 3, che realizza qui una regia piuttosto elegante: uno spazio bianco ed essenziale è occupato da sedie vuote e trasparenti che evocano il senso di solitudine mai esplicitato, ma comunque al centro del testo. E appena si arresta il fiume di parole del protagonista, brevi proiezioni video invadono la scena riempiendola e provocando un forte impatto nello spettatore. Un ottimo lavoro di luci, inoltre, valorizza e supporta con sapienza la narrazione.
A questo si aggiunge l'intensa interpretazione di Daniele Pitari, già apprezzato protagonista di Portami in un posto carino (spettacolo ancora firmato da Tobia Rossi e Manuel Renga), e anche qui capace di passare con disinvoltura da registri comici a momenti drammatici, mantenedo sempre una lodevole naturalezza e dando un buono spessore al personaggio.
Quel che può lasciare perplessi è la drammaturgia. Si riscontrano di fatto più dovizia e prolissità nel descrivere i rapporti oro-genitali, che nell'approfondire la questione di fondo. Il male esistenziale del protagonista fatica così ad assumere una dimensione universale e viene infine a mancare un messaggio da lasciare al pubblico che vada al di là della premessa presa di distanza dal sesso facile.
Infine la scelta di concentrare tutta l'attenzione su un unico personaggio negativo di orientamento non eterosessuale fa cadere lo spettacolo nel rischio che lo spettatore medio legga il dramma come un ritratto grottesco e impietoso di tutto il mondo omosessuale, avvalorando chi automaticamente associa l'omosessualità alla promiscuità più disinvolta, alla superficialità e alla perversione. In una società che stenta ancora a rinunciare all'omofobia, assumersi rischi di questo tipo è quantomeno inutile.
Peraltro da una compagnia teatrale che comprende più elementi di orientamento omosessuale è lecito aspettarsi più sensibilità al problema.

La mia massa muscolare magra
 drammaturgia: Tobia Rossi 
regia: Manuel Renga 
con Daniele Pitari 
assistente alla regia e video editing: Andrea Finizio 
scene e luci: Aurelio Colombo 
produzione CHRONOS3

Spettacolo nato in occasione della residenza della compagnia CHRONOS3
presso gli spazi di Residenza Idra a Brescia nel 2014
Presentato in anteprima nazionale a Brescia
nella sezione Open Up del Wonderland Festival 2014

Selezionato nella sezione della Giovane Drammaturgia Italiana
al Festival TRAMEDAUTORE 2014 Outis/Piccolo Teatro di Milano

Visto presso il Teatro Libero di Milano


sabato 6 dicembre 2014

Il Giovane Giorgio Strehler


Ricordando Giorgio Strehler


Giorgio Strehler può essere considerato a buon diritto il padre del teatro di regia in Italia e di certo è stato la figura più importante per l'affermazione di una realtà stabile nel panorama teatrale italiano. Non solo un artista fondamentale, quindi, per l'affermazione di un gusto moderno e raffinato sulla scena, ma anche un esempio di impegno civile serio e continuativo.
Per questo è importante che la sua personalità continui ad essere oggetto di studio nel nostro paese. Segnaliamo quindi con piacere un nuovo saggio che si focalizza sui primissimi passi della sua carriera.
Il nome di Giorgio Strehler, è infatti abitualmente associato al Piccolo Teatro, fondato nel 1947, e alla città di Milano. Il suo esordio alla regia, però, avvenne prima, durante la Seconda Guerra Mondiale, con due spettacoli rappresentati a Novara in un teatrino ormai abbandonato. Ne Il giovane Strehler. Da Novara al Piccolo Teatro di Milano riscoprire quegli eventi ormai lontani, indagarne le origini e le conseguenze e analizzarne il contesto diventa l’occasione per approfondire un periodo umano e professionale poco conosciuto dell’artista triestino – allora attivo anche come attore e teorico teatrale – nonché la vita culturale di Novara e di Milano e la realtà teatrale italiana della prima metà del Novecento, fra tradizioni dure a morire e novità che faticavano a radicarsi.
Il volume si avvale di un intervento iniziale di Stella Casiraghi, promotrice e organizzatrice culturale che ha collaborato a lungo con il Piccolo Teatro e ha curato l’edizione critica di molti inediti di Strehler, ed è impreziosito da un nutrito apparato iconografico e da interviste a personaggi della cultura locale e nazionale come lo storico e critico d’arte Raul Capra, il musicista Folco Perrino e l’attore Gianrico Tedeschi.
L'autrice é Clarissa Egle Mambrini, che al suo attivo conta già saggi di cinema e teatro pubblicati dalla EOS Editrice: Risaia in celluloide, nel volume In grembo alla Terra – Affreschi sul mondo contadino (2007), C’era una volta il Cinema e Su il sipario!, nell’opera L’incredibile Novecento – Viaggio italiano nel secolo breve (2011).




Il giovane Strehler. Da Novara al Piccolo Teatro di Milano
di Clarissa Egle Mambrini
Con un intervento di Stella Casiraghi
Lampi di stampa, Vignate (MI)
Ottobre 2013
pp. 366
Prezzo di copertina € 24,00

lunedì 24 novembre 2014

L'uomo nel diluvio



L'uomo nel diluvio

 


di Felice Carlo Ferrara

La crisi economica nel nostro paese perdura e così se ne parla in televisione, nelle strade, al cinema e anche a teatro. Si sono già visti tanti spettacoli sul tema del lavoro precario o sulla disoccupazione. "L'uomo nel diluvio" di Simone Amendola e Valerio Malorni sceglie, tuttavia, di spostare lo sguardo dal mondo dell'impiego al fenomeno dell'emigrazione, entrando in un campo forse meno trattato che permette di focalizzare l'attenzione su sentimenti molto intimi ed emozioni che abbiamo ancora bisogno di comprendere.



Significativamente lo spettacolo si apre con un uomo che si toglie giacca, camicia e pantaloni e cerca di ricreare sul palcoscenico il suo bagno privato, la sua vita più segreta. Non è un personaggio teatrale, è Valerio Malorni, un attore che rinuncia alla maschera della finzione per aprire una porta nel suo cuore e capire quali emozioni scuote la parola emigrazione: forse un paese straniero come la Germania può offrire prospettive di vita più alettanti da un punto di vista economico, ma sono pur sempre prospettive che escludono la propria casa e il proprio bagaglio affettivo. Nessuno può mettere in valigia la propria famiglia, la compagnia di amici, né tutto quello che un luogo o un oggetto può significare. Partire per una nuova vita è una scommessa che comincia subito con una pesante rinuncia al proprio passato. Chi emigra è forse come Noè, che sale sull'arca consapevole che tutto quello che lascia fuori dal suo bagaglio sarà distrutto dal diluvio. 




 Lo spettacolo non vuole tuttavia fermarsi a qualche riflessione. Vuole piuttosto riferire esperienze reali di vita vissuta. Così Valerio Malorni ha coraggiosamente accettato di vestire i panni di un moderno Noè e ha effettivamente affrontato un periodo da emigrato a Berlino. E quel che si offre oggi allo spettatore non è tanto uno spettacolo, quanto un racconto personalissimo operato senza filtri. Questo si traduce in un linguaggio teatrale molto povero, fatto più di parole che di azioni, supportato solo da qualche proiezione video e pochissimi oggetti scenici, un linguaggio che tuttavia può avere un impatto molto forte sullo spettatore. Tutto è infatti affidato alla sincerità con cui Valerio Malorni si confessa davanti al pubblico, e al valore di un'esperienza davvero significativa.
Perché nella grigia e fredda esistenza trascinata in quei mesi a Berlino, l'attore è riuscito a creare una breccia nella corazza del popolo tedesco, strappando al pubblico straniero una confessione toccante che, dopo tanti numeri e tante statistiche, riporta finalmente in primo piano il dato umano su quello economico.


Uno spettacolo su un tema che era necessario affrontare, quindi, ben sorretto da un Valerio Malorni capace di essere sul palco uomo prima che attore, e scritto con intelligenza.
Alla stesura del testo e alla regia ha contribuito anche Simone Amendola, già Premio Ilaria Alpi (2010), Premio Solinas (2014) e Premio Oreste per "Porta Furba".
"L'uomo nel diluvio" ha vinto il premio IN-BOX 2014.

Visto a Campo Teatrale il 15/11/2014.

L’uomo nel diluvio
Con Valerio Malorni
Idea, testo, regia: Simone Amendola, Valerio Malorni
Costumi: Maria Linda Fusella
Organizzazione: Floriana Pinto Longo
Una produzione: Blue Desk
Residenza produttiva: Carrozzerie n.o.t.
Con la collaborazione di Zètema

martedì 11 novembre 2014

Il cielo degli Orsi di Teatro Gioco Vita



Il cielo degli orsi: uno sguardo verso l'alto 
per chi ancora non può capire la vita e la morte

di Felice Carlo Ferrara

 
Un giovane orso un mattino di primavera si sveglia dal letargo e decide di diventare papà. Ma come si diventa genitori di un cucciolo? La fantasia di un bambino può essere soddisfatta da mille favole: quella della cicogna o quella del campo di rape; quando si cresce, però, diviene necessario superare le tante menzogne che coprono la verità sulla riproduzione ed entrare con una consapevolezza nuova nel mondo degli adulti.

Un cucciolo di orso, invece, si interroga sulla scomparsa del nonno e desidera conoscere l'Aldilà che immagina essere il cielo: lì forse tutti gli orsi ormai scomparsi continuano a giocare e a divertirsi come un tempo. Non sarebbe allora bello raggiungerlo subito, per rivedere i propri cari? Questo pensiero porta il cucciolo a offrirsi agli animali più feroci, ma in verità il momento della morte è per lui ancora lontano. La vita vuole offrirgli ancora nuove esperienze, esperienze terrene. E a riportarlo alla dimensione concreta dell'esistenza sarà il richiamo affettuoso dei genitori. 


"Il cielo degli Orsi" è quindi uno spettacolo in due capitoli dedicato a temi di sicuro interesse: la nascita e la morte, il tutto con il linguaggio suggestivo delle ombre che Teatro Gioco Vita anima con grazia e creatività. Nascono così momenti di straordinaria bellezza, che valgono da soli la visione dello spettacolo a un pubblico di ogni età.
Merito per gran parte delle splendide marionette, ma anche di una regia fantasiosa, che muove continuamente la scena, cerca nuovi giochi di luce e, quando sembra che tutto il possibile sia stato fatto, scompone il fondale in tanti piccoli quadri, lasciando ad ognuno un piccolo frammento di storia da raccontare. E merito di una colonna sonora notevole e di grande impatto.


Non ci possono essere dubbi, quindi, sulla qualità teatrale di questo spettacolo.
Qualche perplessità può rimanere forse per il testo, costruito per momenti molto simili tra loro e senza particolari sviluppi. Una drammaturgia, quindi, non ricca quanto l'apparato visivo messo in campo. Nonostante le situazioni narrative di partenza aprano le porte a vaste possibilità di riflessione sul mistero della nascita della vita e sulla morte, o alla possibilità di affrontare le emozioni più profonde, la scelta degli autori non è quella di immergersi in questo problematico ma affascinante campo d'indagine, quanto quello di accompagnare il bambino verso una rinuncia al proprio fantasticare su una dimensione metafisica dell'esistenza. Il Cielo degli orsi sognato dai due protagonisti non è infatti visto come volo necessario verso qualcosa di più alto per superare il dolore di una vita insoddisfacente, ma come scollegamento pericoloso verso la realtà più concreta, dove, più che i pensieri e l'immaginazione, conta l'esperienza materiale.


 Il cielo degli orsi
Dall'opera di Dolf Verroen & Wolf Erlbruch
Una produzione di Teatro Gioco Vita

Con Deniz Azhar Azari, Andrea Coppone
Regia e scene: Fabrizio Montecchi
Sagome: Nicoletta Garioni e Federica Ferrari ispirate ai disegni di Wolf Erlbruch
Coreografie: Valerio Longo
Musiche: Alessandro Nidi
Costumi: Tania Fedeli
Luci: Anna Adorno
Realizzazione scene: Sergio Bernasani

Visto nell'edizione 2014/2015 dell'IF festival organizzato dal Teatro del Buratto.

martedì 4 novembre 2014

La Sirenetta secondo Filippo Timi



Filippo Timi e il sogno del Franco Parenti

di Felice Carlo Ferrara

Filippo Timi nell'area da riqualificare

Dopo i recenti successi di pubblico riscossi in insolite programmazioni estive, il teatro Franco Parenti amplia i suoi orizzonti e si spinge a immaginare nuovi modi di interazione tra la propria struttura e gli spettatori: non è ancora chiarissimo quale sia l'obiettivo finale cui tende la direzione, ma di certo c'è la storia di un centro balneare nato negli anni '30, smembrato durante la guerra e mai più risorto, se non in alcuni locali ora rinnovati e utilizzati dallo stesso teatro Franco Parenti. L'area ancora in stato di abbandono, comprendente due piscine e una palazzina in ben 14 mila mq, potrebbe quindi essere riqualificata, aperta al pubblico e, infine, pensata come prolungamento del teatro.
Il progetto sembra piuttosto ambizioso, ma Andrée Ruth Shammah, nella sua ricerca di fondi, ha potuto contare sull'appoggio di un amico molto speciale: si tratta di Filippo Timi, che dopo gli strepitosi successi raccolti da Amleto, Favola, Don Giovanni e Skianto, ha ormai un rapporto strettissimo con lo stabile d'innovazione. L'attore e regista ha così scritto in pochi giorni un nuovo testo, ha chiamato a raccolta alcuni dei suoi collaboratori più cari, comprese le amatissime Lucia Mascino e Marina Rocco, e in un tempo brevissimo, 6 giorni, ha allestito un lavoro che deve considerarsi un abbozzo di spettacolo, più che qualcosa di definitivo. Una sorta di work in progress aperto al pubblico, i cui profitti saranno devoluti per la realizzazione del progetto.
Il tema scelto è strettamente connesso al sogno di Shammah: Timi è infatti partito dall'immagine di una bagnante degli anni  '30, ha quindi ricreato un'atmosfera retrò ispirandosi al nostro miglior cinema, e, con il consueto spirito demistificante, ha fuso il tutto con la più celebre fiaba di Andersen.



Timi e la sua Sirenetta senza abissi

Il mito della sirena è stato per secoli il simbolo del fascino e nello stesso tempo del terrore esercitato sull'uomo dall'universo ignoto e misterioso del mare; in seguito la figura della sirena è confluita nel motivo della femme fatale, della donna ammaliatrice metafora del potere schiacciante della sessualità contro la debolezza della ragione. Hans Christian Andersen, invece, nella sua celeberrima fiaba, capovolse il punto di vista e fece della creatura marina un essere sorprendentemente tenero; la sua sirenetta, ben lontana dalle armi della seduzione insidiosa, divenne ella stessa una vittima dell'amore e la sua morte solitaria si fece denuncia di un destino troppo spesso avverso ai sentimenti più autentici.
La Disney, poi, per una felice ispirazione, vide la condizione della sirena, pesce solo per metà e solo per metà donna, una metafora della difficoltà dell'adolescente nel maturare un'identità adulta in una fase che costringe di fatto a stazionare in una scomoda situazione intermedia.

Filippo Timi nel suo ultimo lavoro dal titolo La sirenetta, sceglie di mantenere il pessimismo dello scrittore danese e nello stesso tempo sembra raccogliere almeno parzialmente il suggerimento della versione animata, facendo tuttavia della sirena un'icona non della sessualità immatura dell'adolescente, ma della propria.
Marina Rocco, nella parte della protagonista, aspira a un amore con un umano e cade nell'illusione che questo possa avvenire solo acquistando una vagina, proprio come un ragazzo effeminato, nell'aspirare a un rapporto amoroso con un uomo eteresessuale, può desiderare organi genitali femminili.
Non si tratta tuttavia di uno spettacolo sull'omosessualità; la protagonista è una donna con un sentimento idillico ucciso da chi si è arreso troppo presto alla superficialità e al cinismo; solo nel finale Timi si alza e veste l'abito della sirena, suggerendo un'identificazione con la sua eroina. È dunque piuttosto uno spettacolo sulla sessualità di Timi, quella sessualità che spesso invade le sue opere e sembra ingabbiare il suo mondo. E quella che si rappresenta non sembra la realtà universale, quanto una realtà individuale, un mondo interiore dai contorni onirici.

 Filippo Timi ne La sirenetta

Non a caso Timi si affida il ruolo del regista. Come già accaduto in alcuni lavori precedenti, l'attore si pone come dominatore della scena, con la differenza che, se Amleto e Don Giovanni erano uomini che si elevavano al di sopra della realtà universale, qui Timi si eleva al di sopra della realtà della sua mente.
Ed è un mondo difficile da comprendere, un mondo che può divertire il suo creatore, ma turba e inquieta  il pubblico. Come raramente accade nei lavori di Timi, non volano molte risate tra gli spettatori. Nel corso dello spettacolo, infatti, si prova una sorta di angoscia non tanto per i protagonisti della narrazione, quanto per gli attori stessi, marionette denudate, manipolate, umiliate da un Filippo Timi che sembra voler sottoporre tutti a quello stesso sentimento di profonda frustrazione che deve albergare in fondo alla sua anima.
Non ci vengono date spiegazioni e l'intento di Timi non sembra quello di voler comprendere la propria interiorità, quanto quella di inscenarla, rimanendo immerso nel proprio disorientamento.


Siamo in una spiaggia piuttosto cupa e grigia. In questa atmosfera tetra, spicca l'insegna luminosa di un locale di poche pretese.
Sulla sabbia un Filippo Timi dall'aspetto piuttosto serio è affiancato da un uomo dalla testa di uccello, che, se rievoca Uccellacci e uccellini di Pasolini, potrebbe essere un cupo simbolo fallico e insieme un presagio di morte.
Comincia allora un monologo, di quelli caotici e ridondanti che ama scrivere Timi, e dopo lunghe perifrasi, il discorso si circoscrive ad un unico concetto: la vagina.

 Elena Lietti

Quindi entrano in scena due prostitute, poi uomini avezzi alle prostitute, figli di prostitute o essi stessi nella rete della prostituzione. Infine compare la sirenetta e se anche la sua voce non fa che ribadire l'onnipresenza della prostituzione in questo angusto universo, per un momento l'ingenuità con cui parla è un piacevole spiraglio di luce. Uno spiraglio effimero. L'ingresso della strega del mare, una donna del tutto simile alle prostitute di prima, non serve che a introdurre la protagonista nel circolo della prostituzione. E il denudamento di Marina Rocco, metafora della perdita della sua innocenza, è il momento più duro dello spettacolo.
Quindi ancora una scena dedicata al Principe di questa fiaba: un uomo un tempo tanto candido da sembrare figlio di un re, ora con un'anima nera come il cielo che lo sovrasta. Il suo incontro con la sirena, quindi, non può che portare a una morte assurda e impietosa l'ingenua protagonista.
In questo universo, quindi, non esiste che una sessualità mortifera, degradante e mercificata, mentre tutti i sentimenti hanno vita breve e stentata.
Lo spettacolo si chiude poi con una sfilata di tutti i personaggi che ricorda da vicino 8 e mezzo di Fellini. Filippo Timi costruisce infatti l'estetica del suo spettacolo citando di continuo i pilastri della nostra cinematografia. Il suo alter ego in scena ha infatti tutto l'aspetto del Marcello della Dolce Vita di Fellini, personaggio torbido e confuso con cui Timi ha forse nella vita molti punti di contatto; la prostituta della Mascino rincorre invece, con una certa fatica, la Magnani di Mamma Roma, mentre la Lietti cerca forse un'identità con la Masina felliniana. E ancora i personaggi maschili riprendono i ragazzi di periferia di Pasolini, ritraendoli con la stessa naivitè del cineasta.

 Lucia Mascino

Questi omaggi, però, non sono che un vestito per uno spettacolo che per il resto non riprende molto altro dalla nostra storia cinematografica. La personalità di Timi, infatti, non si presta molto al senso tragico di un De Sica, alla sobrietà rigorosa di Antonioni o all'eleganza di un'opera di Fellini; si compiace invece di toni scanzonati e spesso sboccati.
Con La Sirenetta siamo del resto nel mondo personalissimo di Timi, dove tutto deve calarsi all'interno di una sessualità invadente e costantemente insistita, un universo in cui il sesso sembra, più che un atto vitale, un modo per resistere ai sentimenti, per respingerli, qualcosa che paradossalmente conduce alla morte dell'individuo più che all'affermazione della vita.
Il risultato è qualcosa di profondamente contraddittorio: una drammaturgia dai risvolti tetri, eppure composta da dialoghi fin troppo leggeri; uno spettacolo corale dove tuttavia l'unica vera voce è quella di Timi; un inno al sesso che si chiude con una condanna dell'atto sessuale stesso. E anche la reazione dello spettatore può essere molto confusa. Si può infatti rimanere affascinati dalle atmosfere dello spettacolo e nello stesso tempo sentirsi respinti da una drammaturgia che si ostina a galleggiare sulla superficie senza mai inabissarsi là dove potrebbero veramente risiedere tutte le potenzialità del lavoro.

 La sirenetta
di Filippo Timi
con Filippo Timi, Marina Rocco, Lucia Mascino, Elena Lietti, 
Lorenzo Cervasio, Daniele Giulietti, Riccardo Toccacielo, Simone Nobili
Una Produzione Franco Parenti

 durata: 30 minuti