lunedì 16 febbraio 2015

Supereroi del passato: crescere senza superpoteri



SUPEREROI DEL PASSATO:

crescere senza superpoteri

 di Felice Carlo Ferrara



Gregorio è un ragazzino come molti, sottoposto ai doveri della vita quotidiana - lavarsi, studiare, ubbidire, andare a scuola... - ma armato, allo stesso tempo, di mille giocattoli per liberarsi con la fantasia di tutte le frustrazioni e immaginare per un momento di essere un supereroe!
Un uomo come Superman, uno che con la forza può farla da padrone, anziché subire da tutti scherzi o maltrattamenti. Perché anche la vita di un bambino ha i suoi momenti difficili, specie se a scuola si deve convivere con qualche compagno prepotente e un po' gradasso. 



Oppure uno come Ironman o Spiderman o Hulk... Insomma, chiunque abbia superpoteri, perché con quelli sarebbe certo più facile risolvere tutti i problemi. Peccato, però, che quei poteri non possano durare che il tempo del gioco. Basta un rimprovero della mamma per vedere svanire il sogno e riscoprirsi in un attimo piccoli piccoli.
Siamo allora destinati a rimanere tristi e mediocri? Tutt'altro! Bisogna solo trovare in se stessi i poteri giusti! Non quelli dei fumetti, ma quelli che spesso sono tanto nascosti in noi da rimanere invisibili! E dire che sono forse i più grandi doni che la vita ci abbia dato: fiducia in se stessi, impegno, costanza, esercizio e coraggio! Tutte cose che conoscevano bene certi uomini o donne antiche sepolti ormai nella sebbia del tempo. Proprio loro animano una notte i sogni di Gregorio: Ramses, che sin da ragazzino si faceva onore grazie alla sua abilità in combattimento, Ipazia, capace con lo studio e l'applicazione di introdurre idee astronomiche innovative, Giovanna d'Arco, celebre per il coraggio e la forza che la fede le ispirava, o Magellano, spinto dalla curiosità ad esplorare le terre più sconosciute. E così tanti altri, tutti grandiosi nelle loro vite intense e straordinarie, eppure nessuno dotato di poteri sovraumani e nessuno di dimensioni gigantesche! Sono i super eroi del passato, quelli che la Storia tramanda per ricordarci cosa ognuno di noi potrebbe fare, se solo alimentasse il coraggio e la passione e si applicasse senza esitazione per raggiungere i propri scopi.
E così con questo insegnamento Gregorio sarà pronto a rivoluzionare la propria vita. Perché il gioco deve essere sì fantasia, ma anche uno strumento che ci aiuti poi ad affrontare la realtà in modo creativo, e non una bolla per separarsi da tutto ciò che non vogliamo affrontare.


Supereroi del passato è uno spettacolo estremamente attuale, capace di cogliere con le sue tematiche questioni di fatto urgenti e purtroppo spesso ignorate. I numerosi spunti pedagoci sono, peraltro, sviluppati con leggerezza e ironia da una regia che sceglie sempre uno sguardo divertito sul bambino e un tono spensierato.
Ne risulta uno spettacolo intelligente e sempre godibile, capace di tenere viva l'attenzione dei bambini di tutte le età. Questo anche grazie alla forza scenica e all'abile gioco di caratterizzazioni dei due giovani e bravi interpreti: Cesare Frignati e Lara Tomasi, a cui la regia non concede certo di risparmiarsi!



Supereroi del passato
regia: Caterina Scalenghe
assistente alla regia: Nino Faranna
con Lara Tomasi e Cesare Frignati
musiche originali: Budavari: Alessandro Re (Tastiera, Sax, Chitarra); Giacomo Servi (Sintetizzatore, Basso); Andrea Todisco (Chitarra); Elia Zenoni (Batteria, Glockenspiel)
produzione: Campo Teatrale

visto il 15 febbraio 2015 a Campo Teatrale, Milano

venerdì 13 febbraio 2015

Eutanasia: Cesar Brie porta sulla scena la difficile questione dell'eutanasia



Orfeo e Euridice: 

Cesar Brie e Eco di Fondo scelgono un mito antico per parlare di eutanasia 

 


di Felice Carlo Ferrara

Nel mito antico, Orfeo, non potendo rassegnarsi alla morte di Euridice, scendeva negli inferi e, con il fascino del suo canto, tentava di riportare in vita l'amata. Oggi Cesar Brie riprende il mito, rovesciando tuttavia il ruolo di Orfeo: il suo eroe, infatti, non deve combattere contro la morte, ma piuttosto invocarla, perché i due protagonisti si ritrovano loro malgrado ad agire in una zona grigia che sospende Euridice in uno stato molto più ambiguo degli inferi, dove non si può parlare né di vita, né di morte. È la realtà del coma, una realtà artificiale, prodotta dai farmaci e dall'accanimento terapeutico operato su individui la cui reale condizione esistenziale è difficile da comprendere. Fin dove può arrivare la medicina senza ledere per questo la dignità dell'uomo? Fino a che punto le cure possono contendere una vita umana al ciclo della natura? Chi stabilisce che una cruda esistenza materiale sia migliore del volo dell'anima nell'Aldilà? Sono tante le domande che si nascondono dietro la parola eutanasia e poche le risposte, perché il campo dell'etica è difficile da definire, specialmente in un'epoca priva di certezze come la nostra.
Nondimeno la sofferenza cui sono costrette molte persone richiede comunque di affrontare una riflessione al riguardo. 



Cesar Brie e la compagnia Eco di fondo si sono unite in una produzione Teatro Presente per rispondere a questa esigenza e hanno creato uno spettacolo che, pur muovendosi su un terreno estremamente rischioso, risulta in verità molto difficile da criticare. Questo grazie alla scelta di accantonare la retorica, per lasciare spazio ad un racconto concreto, dove protagonista non è l'ideologia, ma una coppia di giovani qualunque, che, dalla tranquillità quotidiana, si ritrova catapultata d'un tratto in una realtà terribile, ma purtroppo spesso reale: un incidente travolge la donna e da quel momento termina per lei la vita, senza che possa tuttavia cominciare la morte. Questo per l'intervento dei medici, che sanno sì trattenerla dal baratro, ma non sanno poi sospingerla altrove. Ed è così che la tragedia non può condurre ad alcuna catarsi, perché tutto rimane sospeso, inamovibile, senza alcuna evoluzione per anni, anni, anni.
E non ci sarebbe affatto soluzione, se non si levasse la voce del compagno a pretendere che qualcuno si occupi di quella sofferenza.


Lo spettacolo si schiera coraggiosamente a favore dell'eutanasia. Non lo fa, tuttavia, attuando opinabili semplificazioni, perché, al contrario, lascia spazio alle motivazioni e ai pareri di entrambe le parti e non cade mai nella tentazione di demonizzare alcuna presa di posizione. Non solo. Il testo ha l'intelligenza di trattare la sofferenza non come protagonista del dramma, ma piuttosto come antagonista dell'amore e della felicità della coppia e forse proprio questa scelta è il segreto di uno spettacolo che trova subito una profonda empatia nello spettatore, riuscendo sin dalle prime scene estremamente toccante.
A ciò si aggiunge l'interpretazione intensa e molto partecipata dei due bravissimi interpreti: Giacomo Ferraù e Giulia Viana, capaci di affrontare con molta credibilità anche le scene più dure.


Da un punto di vista strettamente teatrale, infine, merita una lode particolare la regia dello spettacolo, per il grande equilibrio raggiunto nel mettere insieme dati scientifici, dramma umano e pura narrazione e, soprattutto, per la perfetta sintesi ottenuta nel linguaggio teatrale. Ogni momento del dramma sa offrire allo spettatore un'immagine metaforica elegante, poetica ed efficace, immagini rese con l'uso di pochi oggetti o semplici gesti, che, accompagnati da un giusto uso delle musiche e delle luci, e sostenute dall'abile lavoro attorale, trovano infine una grande potenza comunicativa.
In definitiva uno degli spettacoli più belli attualmente in circolazione. Sicuramente consigliato.




Orfeo ed Euridice
testo e regia César Brie
costumi Anna Cavaliere
musiche Pietro Traldi
con Giacomo Ferraù e Giulia Viana
disegno luci Sergio Taddo Taddei
produzione Teatro Presente / Eco di fondo
SELEZIONE INBOX 2014

Visto il 10 febbraio 2015 presso il Teatro Elfo Puccini di Milano

martedì 10 febbraio 2015

Claudio Santamaria è il Gospodin di Giorgio Barberio Corsetti


Gospodin, o del nostro trasandato presente

di Monica Ceccardi


Gospodin ha dormito in un parco.
Lo vediamo a inizio spettacolo sdraiato su una panchina, addormentato. Intorno a lui brandelli di città proiettati sui sette pannelli bianchi che diventeranno ogni cosa. La narratrice, che presto diventerà la compagna, la madre, l’amica, ci racconta di lui. Chi è Gospodin? E’ un ragazzo che si addormenta quando è agitato, che corre sempre, perché fugge da ciò che della realtà non accetta. Quando corre, la città corre con lui.  Il cemento corre sulle pareti e diventa la sua casa che condivide con Annette. Li vediamo nell’ultimo confronto prima dell’addio, perché Annette se ne andrà, stanca di vivere con un uomo che ha scelto di auto escludersi dalla società. 
La situazione precipita a causa di un lama.
Gospodin aveva un lama che gli riempiva le giornate, ma ora Greenpeace gliel’ha portato via. Quell’animale era la sua manifestazione contro la società industriale. E così ora esplode la sua rabbia. E Annette se ne va. 
La casa proiettata si svuota. 
Restano il palcoscenico nudo e della paglia al posto del letto.
“Chi, qui, vuole cosa da chi?” si chiede.
Non è chiaro, e Gospodin corre. Finisce in un supermercato, fa una spesa da cinquecento euro, le pareti sono invase da prodotti proiettati e lui balla in scena e arriva alla cassa sorridendo: non ha il portamonete.
Perché Gospodin ha un dogma: afferrare il capitalismo per le palle.
Per lui i soldi non devono essere necessari. E così non vuole un lavoro, e rifiuta quelli che gli vengono offerti. Vuole avere la libertà di non scegliere nulla, vuole solo esistere.

 
Ha degli amici strani; ce li racconta un altro narratore che darà loro vita: un fantomatico artista che costruisce opere da vecchie lavatrici e televisori e un misterioso uomo che porta sempre una sciarpa blu e che gli chiede di poter lasciare da lui una valigia piena di soldi che presto tornerà a prendere. Ma l’amico con la sciarpa blu muore e Gospodin si ritrova ricco. Appena gli amici, la madre, la ex compagna, verranno a sapere di quei soldi, inizierà un valzer strisciante di richieste alle quali Gospodin si sottrarrà ostinatamente. Tenterà però in tutti i modi di liberarsi da quei soldi, lasciandoli davanti ad una banca o ad un gruppetto di tossici al parco, ma quella valigetta tornerà grottescamente sempre nelle sue mani.


Lui non vuole aver bisogno dei soldi, vuole vivere di baratto, e invece i soldi ce li ha. Il dio denaro cresce nelle bocche delle persone, li tramuta in mostri ipocriti, che vedono in Gospodin lo stronzo milionario che non li vuole aiutare.
Alla fine verrà arrestato per detenzione di denaro sporco.
Scoprirà nella prigione tutto quello che desiderava, il suo luogo perfetto.
Lì la sua filosofia si sposerà con la realtà. Perché la galera è il regno del baratto, in cui non ci sono soldi: lavoro in cambio di cibo. In galera può non prendere decisioni, e questo è il significato che lui dà alla libertà. Non si sente rinchiuso, sa solo quali sono e dove sono i limiti. Perché in fondo cos’è e a cosa serve la libertà se non sai dove andare?


Testo pluripremiato, lucidissimo e surreale ad un tempo, scritto dal giovane drammaturgo tedesco Philip Lohle (classe 1978), Gospodin è l’antieroe contemporaneo che tenta in tutti i modi di sottrarsi ad un mondo capitalistico votato al profitto, un mondo che sembra si sia dimenticato della radice semplice, fragile, naturale che è all’origine dell’uomo.
La messa in scena di Giorgio Barberio Corsetti restituisce visivamente il mondo di Gospodin, con l’ausilio di animazione grafica e video mapping. E così sembra di essere nella testa del protagonista, nelle sue allucinazioni, nelle sue paure per finire poi di nuovo gettati nella sconsolata realtà che lo circonda.
Gli attori, in questo mondo sghembo, sono soli a dover fare i conti con personaggi che scivolano loro addosso senza che possano o riescano del tutto a fermarli. E’ un’umanità sfuggente, sperduta. E così le donne, interpretate con verve istrionica da Valentina Picello, sono figurine svuotate di vita, ma cariche di ironia. Lo stesso accade per le figure maschili impersonate da Marcello Prayer, energico nel delineare i personaggi che incontrano e si scontrano col protagonista.
Il Gospodin di Claudio Santamaria danza in questa regia sciolta oscillando tra una fragile umanità e una levità surreale, eppure ci sono momenti in cui sembra spezzarsi qualcosa. Sono piccole fratture, spiragli di luce da cui filtra la forza del testo: emerge così, nell’interpretazione di Santamaria, una caratteristica centrale della personalità di Gospodin, il suo essere, o non poter più essere, l’anti-eroe di questo nostro trasandato presente.



 Gospodin
di Philipp Löhle
traduzione Alessandra Griffoni
a cura del Goethe Institute
con Claudio Santamaria, Valentina Picello, Marcello Prayer
regia Giorgio Barberio Corsetti
scene Giorgio Barberio Corsetti, Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
graphics Lorenzo Bruno, Alessandra Solimene
video Igor Renzetti
musiche Gianfranco Tedeschi, Stefano Cogolo
regista assistente Fabio Cherstich

una produzione Fattore K. / L’UOVO Teatro Stabile Di Innovazione
in collaborazione con Romaeuropa Festival

Visto al Teatro Camploy di Verona il 6 Febbraio 2015

venerdì 6 febbraio 2015

Ero, il nuovo spettacolo di Cesar Brie



"Ero": Cesar Brie racconta se stesso


di Felice Carlo Ferrara


Dopo una inesausta ricerca teatrale condotta per anni, ora accostandosi a grandi classici della letteratura, ora affrontando scottanti tragedie della nostra attualità, ora analizzando gravi mali sociali, Cesar Brie con il nuovo spettacolo Ero sposta lo sguardo su se stesso, per affrontare la realtà della propria maturità e tentare un bilancio della propria vita, se non addirittura un autoritratto che restituisca parte della sua identità.
Il regista disegna quindi sulla scena una grande x, al cui centro mette se stesso, uomo e attore, e sulla cui periferia fa invece riemergere le figure dai cui incroci è derivata dapprima la sua nascita e quindi la sua esistenza, con le sue scelte e le sue caratteristiche peculiari. A ognuno di questi fantasmi è concesso un tempo breve, secondo un linguaggio sintetico che abbozza i protagonisti con pochi segni e poche parole e fermando solo quei momenti che si sono fissati maggiormente nella memoria. Così della figura paterna ascoltiamo soprattutto il silenzio con cui esprimeva la propria riservatezza, scopriamo la passione per i libri, forse l'eredità maggiore lasciata al figlio, e d'un tratto la confessione dell'amore per la famiglia strappata durante un evento temibile che, paradossalmente, si muta in uno dei momenti più teneri e necessari, prima che la morte lo spazzi via.
Ancora si susseguono la madre, la sua anaffettività e la depressione che la allontana dai figli, quindi la nonna, l'orgoglio per la sua bellezza e l'ironia sulla sua vanità, i fratelli, le sorelle, i primi baci e, naturalmente il teatro. E proseguendo in questo viaggio fatto di ricordi, l'io si allontana man mano dalla cerchia familiare per confrontarsi col mondo esterno. Lo sguardo, dunque, si allarga e Cesar Brie supera i limiti di un racconto intimistico, restituendoci anche efficaci finestre sulla nostra realtà in cui si affacciano gustose caratterizzazioni che fotografano lo snobismo delle classi sociali più alte o la meschinità della nostra politica.


Il percorso tracciato dal regista argentino non è tuttavia lineare, ma piuttosto circolare, come spesso accade alle parabole delle nostre esistenze: così alla spinta per l'emancipazione, data forse dalla delusione degli affetti familiari, segue una rinnovata delusione per la vita artistica, dura e solitaria quando viene a mancare una rete solidale tra società, politica e artisti, e quindi una rivalutazione della sfera affettiva. In questo cammino a spirale, forse l'unico perno stabile è l'io bambino, quello da cui si tenta di fuggire per realizzare il sé adulto, ma che spesso si rimpiange e che probabilmente racchiude il segreto della nostra reale identità.
Come sempre Cesar Brie realizza uno spettacolo ben equilibrato, in cui ogni momento drammatico si controbilancia con improvvisi slanci di ilare vitalità e dove l'uso intelligente dell'ironia trova il modo giusto per realizzare i necessari trapassi da una atmosfera all'altra. Così anche nel linguaggio teatrale, si ritrova la consueta sapienza del regista argentino per cui la parola, l'immagine e l'interpretazione non si scavalcano mai tra loro, ma, al contrario, concorrono per realizzare al meglio e nel modo più completo il momento scenico.

Ero
scritto, diretto e interpretato da Cesar Brie
scene e costumi: Giancarlo Gentilucci
musiche: Pablo Brie
disegno luci: Daniela Vespa
burattino di Tiziano Fario
assistenza: Marco Rizzo, Tiziana Irti, Claudia Ciuffreda
residenza: Teatro Nobelperlapace
produzione: Arti e Spettacolo, Cesar Brie. 
In collaborazione con Teatro Stabile d'Abruzzo

Visto presso Campo Teatrale di Milano


Elio De Capitani alla regia di Improvvisamente l'estate scorsa

 Improvvisamente l'estate scorsa, Elio de Capitani e il diorama di Tennesse Williams



di Felice Carlo Ferrara


Mrs Venable, ricca vedova rimasta sola dopo il lutto improvviso del figlio Sebastian, promette a un neurologo un cospicuo finanziamento a patto che operi una lobotomia ai danni della nipote Catherine; la ragazza, a suo parere, mostra segni di instabilità psichica da quando, l'estate dell'anno precedente, ha assistito alla morte del cugino Sebastian avvenuta in un'isola spagnola in circostanze poco chiare.
Pur desideroso di accettare l'offerta e di accrescere la propria fama di neurologo all'avanguardia, l'uomo teme che la ricca vedova voglia usare il proprio potere economico per mettere a tacere una ragazza in realtà sana, allo scopo di mantenere linda la memoria del figlio che la donna idealizza come poeta casto e generoso. Alla voce della signora Venable si incrocerà in seguito quella contrastante di Catherine, la cui verità irromperà nel mondo candido dipinto dalla vedova, riportando alla luce tutte le brutture e le crudeltà che si vorrebbero negare.


Anche questo testo di Tennesse Williams, come molte altre opere del drammaturgo americano, affronta il motivo della follia, sviluppandolo con profonda ambiguità. Il tema terrorizzava lo scrittore e al contempo l'affascinava. Questo per la visione contraddittoria che ne aveva: la follia era per lui la minaccia dell'irrazionalità sulla mente, oppure solo un aspetto incompreso della fragilità umana degna più di ammirazione, che di persecuzione. Proprio in questa fragilità, infatti, Williams vedeva la bellezza maggiore dell'umanità, la sua spiritualità, qualcosa di tanto prezioso, quanto delicato, qualcosa destinato inevitabilmente ad essere oppresso e distrutto da chi, invece, esercita, con apatia sconcertante, una forza schiacciante.
La vita non è dunque che lo scontro fatale tra instabili anime candide e irruenti forze brutali.
Questa riflessione tragica è l'anima stessa di Un tram che si chiama desiderio, ma solo in Improvvisamente l'estate scorsa le istanze autobiografiche che si celano dietro questo pensiero si fanno più evidenti: Catherine, la protagonista costretta in discutibili istituti psichiatrici e poi minacciata di lobotomia, è una rievocazione carica di angoscia della sorella di Tennesse Williams, Rose, chiusa in un ospedale psichiatrico nel '38 e poi ridotta ad uno stato vegetativo proprio a causa di una lobotomia ordinata dalla stessa madre dello scrittore. Con questo dramma Williams denuncia così in modo forte e accorato la degenerazione dei rapporti familiari e insieme della medicina psichiatrica, senza concedere alcuna attenuante all'ignoranza dei tempi; al contrario ha il coraggio di mettere a fuoco il cinismo crudele che deve nascondersi dietro chi esercita tanta violenza, un cinismo a volte motivato dalla venalità, a volte invece da forme di gelosia morbose celate nei rapporti familiari, sentimenti di certo più pericolosi della stessa follia.


L'intero discorso può inoltre divenire una metafora dell'omofobia, della volontà di cancellare la diversità vista come debolezza o deviazione sconveniente. La maggior parte della critica si concentra principalmente sull'omosessualità di Sebastian, la cui misteriosa morte è il centro di tutto il dramma e la cui assenza fisica è di per sé significativa di quanto per la società possa o non possa comparire. Assenza anche simbolica della volontà della madre di cancellarne la fisicità, per farne puro pensiero poetico e filosofico e non ammetterne, così, l'orientamento sessuale. Nel dramma, di fatto, la donna lamenta più i versi mancati del ragazzo, che la sua perduta vitalità.
Tuttavia il significato più profondo del dramma risiede, forse, nell'ambiguità e nella doppia anima di Sebastian: candida vittima sacrificale in un mondo ancora lontano dalla civiltà, secondo il racconto della madre, o egli stesso carnefice, affascinante manipolatore e avido consumatore di rapporti carnali, secondo le rivelazioni della cugina Catherine. Identità opposte che tuttavia non devono escludersi a vicenda, ma coesistere, per comprendere l'animo tormentato del drammaturgo.
Se si volesse istituire una relazione tra Tennesse Williams e la figura di Sebastian, infatti, il tratto che li accosterebbe in misura maggiore non sarebbe tanto l'omosessualità o la creazione poetica, quanto piuttosto l'assenza, l'assenza egoista nei drammi delle fragili Rose e Catherine: la volontà di autoaffermarsi e il desiderio di scoprire la proprià identità sessuale e poetica aveva infatti allontanato Williams dalla sorella, che pure sapeva debole e indifesa, lasciandola sola nelle mani di una madre gelida, per mettere se stesso al centro della propria esistenza, così come Sebastian, nella sua insaziabile ricerca di vita e verità, inaridisce paradossalmente ogni rapporto umano e si impone infine come unico centro del proprio universo, riducendo tutti a semplici satelliti e divenendo così involontario motore della tragedia che si consumerà poi ai danni di Catherine, costretta in istituti psichiatrici. Non solo un atto d'accusa verso la violenza della società, quindi, ma anche un doloroso e amaro mea culpa da parte dell'autore per le proprie responsabilità e, nel finale consolatorio, un tenero tentativo di soccorso della sorella che, se non poteva più avvenire nella realtà, poteva almeno realizzarsi sulla scena.


Elio De Capitani torna oggi su questo testo già affrontato nel 2011 e inserito in un percorso su Williams che comprende nelle sue tappe anche una messa in scena di Un tram che si chiama desiderio con la grande Mariangela Melato e del meno noto La discesa di Orfeo.
Seppure la fama di Tennesse Williams sia soprattutto legata ai traguardi maggiori dell'Actor Studio e all'approfondimento di Strasberg del metodo di Stanislavskij, in questo allestimento Elio de Capitani si allontana dai toni naturalistici per cercare nelle interpretazioni un taglio melodrammatico. La scelta era forse obbligata, dato che in Italia il celebre metodo non si è mai veramente affermato; il risultato è una serie di personaggi stilizzati e semplificati che non sempre si incastrano bene con le esigenze del testo, al contrario complesso, sfuggente e costruito su difficili equilibri. Il gruppo attorale contiene comunque dei buoni elementi, tra cui spiccano le figure secondarie tratteggiate con abilità e leggerezza da Corinna Augustoni ed Enzo Curcurù.
Di grande impatto la scena, ottenuta efficacemente seguendo l'idea del diorama, ovvero della dettagliata ricostruzione scientifica di habitat tridimensionali in cui inserire ed esporre esemplari di creature selvagge all'osservazione analitica degli spettatori. Il concetto è inoltre completato da una ricca partitura sonora che fa irrompere sulla scena terribili versi selvaggi, strida e grida le cui origini rimangono ignote, ma che riflettono evidentemente le anime nere del dramma, con effetto a tratti espressionistico. L'idea evidenzia esaurientemente la visione della vita di Williams, in cui, come in una giungla, prevalgono ancora i rapporti di forza sul tentativo di realizzare una civiltà basata sulla solidarietà.


 Improvvisamente, l'estate scorsa
di Tennesse Williams
traduzione di Masolino D'Amico
regia di Elio De Capitani
scene di Carlo Sala
costumi di Ferdinando Bruni
con Cristina Crippa, Elena Russo Arman, Cristian Giammarini, 
Corrina Agustoni, Enzo Curcurù, Sara Borsarelli
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
produzione Teatro dell'Elfo 
Visto presso il Teatro Elfo Puccini di Milano