venerdì 13 marzo 2015

La favola della buonanotte



La favola della buona notte
 recensione di Felice Carlo Ferrara
fotografie di Francesca Urbano


Una vedova dal temperamento burbero e una ragazzina petulante; due donne abituate a nascondere i propri sentimenti dietro maschere indurite, come se il bisogno di amore fosse una debolezza da non rivelare. La vita intreccia inaspettatamente le loro esistenze: la prima accetta infatti di prendere con sé la seconda, ma entrambe non rinunciano alle distanze imposte dai relativi caratteri. Comincia così un lungo rapporto che appare come un faticoso cammino verso una reciproca apertura, un percorso per assimilare l'idea di maternità o di amore filiale. E, paradossalmente, solo l'affacciarsi della morte può portare al termine di questo viaggio. Perché spesso accade che proprio il gioco delle contraddizioni scioglie i nodi più duri. Così dalla lontananza può nascere la vicinanza e sulle incomprensioni più forti è possibile trovare una intesa.



Lo spettacolo, un adattamento del romanzo Accabadora di Michela Murgia, porta in teatro le atmosfere lugubri descritte dalla scrittrice, senza risolverlo in un registro univoco. La regia sceglie infatti di aprire il dramma con caratterizzazioni esasperate e di conquistare modalità naturalistiche solo dopo la prima mezz'ora,  mostrando così una maturazione delle donne che stempera i caratteri, senza l'obbligo di mutarli nello loro essenza. 


Allo stesso modo si parte da una comicità dal sapore grottesco, per salire solo in seguito verso forti toni drammatici che sanno culminare in un intenso finale.
E se nelle prime scene lo spettacolo si concentra solo sul rapporto tra le due protagoniste, verso la fine il testo si aggancia all'improvviso al tema dell'eutanasia, senza svilupparlo, ma spostando di fatto l'asse della drammaturgia. 


Una sorta di doppio spettacolo, quindi, che guida passo passo lo spettatore, svelandosi solo gradualmente e che si affida soprattutto alle interpretazioni lodevoli delle due protagoniste, Chiara Anicito nei panni della giovane Maria, e Matilde Facheris in quelle di Bonaria. Entrambe si mostrano capaci di passare dai toni piú esasperati alle sfumature più sottili, da un registro smaccatamente comico ad uno prettamente drammatico.
Uno spettacolo, quindi, animato da prove intense e in grado di tenere fino alla fine l'attenzione dello spettatore.




La favola della buonanotte
dal romanzo Accabadora di Michela Murgia
Adattamento di Tobia Rossi
Con Chiara Anicito e Matilde Facheris 
Musiche: Francesco Lori
Oggetti di scena: Luigina Tusini
Assistenti alla regia: Manuel Colamedici, Noemi Bresciani
Allestimento e regia: Marcela Serli
Produzione: Exendrama

Visto il 5 marzo 2015 a Milano presso Campo Teatrale 


lunedì 9 marzo 2015

La vocazione di Danio Manfredini



Riunire la morte con la vita nel sacro segno della vocazione

di Monica Ceccardi


Un vecchio claudicante avanza verso il proscenio sulle note di Ridi pagliaccio. E’ l’anziano attore feticcio di Thomas Bernhard, Minetti. Vuole recitare ancora una volta Re Lear, ma ha paura, perché tutti gli artisti hanno paura. Lui sa di essere stato folle a votarsi in gioventù all’arte drammatica, infatti ha smesso, e da trent’anni coltiva verdure, tuttavia vuole essere ancora una volta Lear. Però zoppica, si soffia il naso, e se ne va. Ecco Danio, spogliato, scorticato, che grida al cielo con delicata disperazione il Monologo del non ne posso più di Mariangela Gualtieri. E di nuovo viene risucchiato dal vortice, riassorbito dalla malia dei suoi personaggi. Maschere stranianti di lattice trasformano lui e il suo perfetto compagno di scena, Vincenzo Del Prete, in Nina e Kostja del Gabbiano di Cechov. I corpi come marionette scomposte si sfiorano con grazia, portando la loro croce, fino allo sparo finale fuori scena, un palloncino, Kostja muore, e Nina si scioglie in danza. Ora è Danio a danzare, a correre, a cadere, a diventare Amleto, a gridare il suo essere o non essere. Corre, cade, si rialza, con la musica che cresce. E così sarà durante tutto lo spettacolo: un viaggio negli inferi di questa santa e puttana vocazione dell’essere attore. Servo di scena di Harwood, Il canto del cigno di Cechov, Un anno con 13 lune di Fassbinder, scorrono con la musica, nella carne degli interpreti, e gonfiano le emozioni degli spettatori. Sopra tutto e tutti sembra di sentire aleggiare la presenza del Teatro, che osserva placidamente gli attori che ogni sera per lui si mangiano la vita, nel carcere teatrale che si sono inflitti. L’unica soluzione è il suicidio? No, vivere, vivere, si canta e si danza, vivere è come un comandamento. Se ci provi, ci riesci, sognatore, ascolta il vecchio attore Svetlovidov di Cechov: dove ci sono arte e talento, non esistono né vecchiaia, né solitudine, né malattie, e persino la morte conta per metà.
Sul finale un’ultima struggente figurina in bilico su zeppe di strass, ali d’angelo rosso fuoco e accento slavo ci chiede: Posso aiutarvi? Riunite la morte con la vita. Posso aiutarvi?
, ci hai aiutato, Danio, ci hai commosso, ci hai ricordato la meravigliosa, terribile, potente fragilità della creazione, che è dono vivo. E il tuo amore per la scena, nell’ansia di perdersi, ha trovato ancora una volta, ancora per questa sera, la certezza di aversi.
Lunghi e commoventi applausi alla fine, per questo viaggio di Manfredini nelle viscere di se stesso, della sua vocazione, e nelle viscere di questo luogo/non luogo incantato che è il teatro.



Vocazione
ideazione e regia Danio Manfredini
progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti, Massimo Neri
con Danio Manfredini, Vincenzo del Prete
luci Lucia Manghi, Luigi Biodi
collaborazione ai video Stefano Muti
produzione La Corte Ospitale

Visto al Teatro Camploy di Verona
il 27 Febbraio 2015